Figure del deserto. Dialettiche della sparizione in Rosi, Guzmán e Perec
Résumé
Il venir meno dell’utopia di un popolo ha spesso generato figure del deserto, persino nei momenti di massima espansione urbana. Desertificazioni dell’essere-comunità si avvertono lì dove la folla diventa massa e infine pubblico (poco prima di provare a ridirsi popolo nell’esperienza della Comune). È questa la Parigi dell’haussmannizzazione, sofferta come isolamento forzato (si veda il pamphlet anonimo del 1868: Paris désert: lamentations d’un Jérémie haussmannisé, che, un secolo dopo, trova il suo controcanto nella solitudine consensuale d’Un homme qui dort, di Perec-Queysanne). “L’esistenza in mezzo alle masse come esperienza specifica della metropoli” finisce per prosciugarsi tra la nevrosi della circolazione e la predisposizione all’isolamento di massa: il deserto rappresenta l’inizio o la fine di un popolo.
Esilio dei senza patria, spazio colmo di perdite, materia metaforica per tutti i bisogni e tutti i miraggi… il deserto è però anche una superficie di resistenza, una sperimentazione, una carta non segnata. Da Atacama, terra di mezzo tra l’archeologia e l’astronomia, Guzmán ci dice la Nostalgia de la luz di un popolo desaparecido eppure ancora “nelle nostre ossa”; la sommersa California di Below sea level è invece una tana per homeless non addomesticabili, a metà tra i veraci spiriti liberi nietzschiani e gli “infami” di Foucault. Benché più plebe che popolo, il focolare d’anime raccontato da Gianfranco Rosi è un incubatore di forme di vita comune impossibili nella City, dove la sopravvivenza è “legata al caso, non al diritto”, e da tutto bisogna nascondersi. Libertà e sicurezza si ritrovano invece li “dove tutto è arido, formeless”, e dove “niente deve essere perfetto”, ma “ognuno può vivere la propria vita come crede”.
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